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Nel cuore del Centroamerica di R. Schneider:


1. Calde notti in Nicaragua

Forse il destino voleva che divenissi testimone e narratore di luoghi, persone ed in parte anche culture che oggi non esistono più, o che per lo meno risultano così drammaticamente modificate da non essere più comparabili a ciò che ancora ho avuto la fortuna di vivere. Questi ricordi li dedico dunque con piacere a tutte quelle persone che mi hanno aiutato nel corso del viaggio e che con la loro simpatia, il loro entusiasmo, la loro gioia di vivere mi hanno preso per mano e fatto conoscere due magnifici paesi: il Nicaragua e l’Honduras. La prima di queste persone fu forse Lindford, statunitense, emigrato in Belize da molti anni, commerciante di praticamente tutto ciò che si possa acquistare e vendere.Lo incontrai una domenica mattina, poco dopo le sei, usciva nudo dalla sua stanza con solo un asciugamano umido attorno alla vita. Il viso segnato dalla stanchezza, anche lui trasudato e con in mano due bottiglie di birra locale. Senza esitare me ne offrì una, come se avesse già saputo di incontrarmi prima di aprire quella porta fatiscente. Io me ne stavo li, a dondolarmi un poco annoiato da una decina di minuti, seduto su di una delle sedie a dondolo del patio di quella pensione invero decadente. Le porte sulla strada erano state sprangate con grosse inferiate e catenacci. Un intenso odore di fritto impregnava ancora l’aria dalla sera precedente. a notte era stata un disastro: un caldo opprimente, senza un filo d’aria. Il ventilatore attaccato al soffitto dello stanzino nel quale ero alloggiato, oltre che a ballonzolare pericolosamente ed a fare un gran rumore, non aveva molto migliorato la situazione. Anzi, quel suo oscillare così preoccupante aveva contribuito ad annebbiare ancor più la mia mente, già stanca per il lungo viaggio. Nel corso della notte era poi venuta a mancare anche la corrente e con ciò quel pur esile filo d’aria dal soffitto, come pure quella luce fioca e tremante della lampadina appesa sopra il letto con lo stesso cavo elettrico che la nutriva. Così, in malo modo, era iniziata la mia avventura in Nicaragua, prima tappa del viaggio, dove ero giunto proprio la sera precedente.

L'ultimo volo per Managua

L’aeroplano aveva sorvolato tutto il Centro America e quindi il pilota aveva segnalato l’inizio della discesa verso l’aeroporto internazionale di Managua. Ormai da tempo dal finestrino non vedevo che nuvole scure, fitte fitte, che parevano non volersi dileguare nemmeno con l’avvicinarsi del suolo. L’atterraggio era giunto così all’improvviso, in mezzo alla nebbia, ed aveva spaventato un poco tutti, la visibilità era praticamente nulla. Quello fu forse l’ultimo atterraggio della settimana, infatti seppi in seguito che l’aeroporto venne chiuso la sera stessa. Lessi sui giornali locali che la densa nebbia era dovuta all’estreme condizioni climatiche causate dal fenomeno di El Niño, situazione poi aggravata dallo sciagurato comportamento degli agricoltori locali che utilizzavano abbondantemente prodotti chimici e deforestavano col fuoco senza ritenio.Decisi di non fermarmi a Managua, città che aveva perso molto del suo fascino, se non tutto, dall’ultimo terremoto che l’aveva devastata. Situazione che di certo ne la guerra sandinista ne i successivi governi rivoluzionari e postrivoluzionari avevano contribuito a migliorare.Mi affrettai quindi a raggiungere Masaya, una cittadina dal passato storico illustre che, pur nella sua decadenza, con strade completamente dissestate e molti muri con ancora evidenti i fori di proiettili degli anni di guerra, lasciava trasparire tutta la sua genuinità. Le mura, oltre che a parlar di guerra recente infatti, erano vive. Persone accovacciate su ogni gradino delle case intente ad osservare i passanti, anziani sonnolenti sulle loro tradizionali sedie a dondolo poste sui marciapiedi e tanta musica sudamericana - mambo, salsa - che allietava ogni vicolo, ogni angolo di strada, nei quali si discuteva animatamente e si scherzava. La gente qui è molto cordiale, aperta e disponibile."Le armi sono però ancora in tutte le case ed in alcune zone del nord si combatte ancora", mi dice Lindford, lo strano personaggio che proprio la guerra aveva portato in questi luoghi. Lui si era arruolato dalla parte dei "Contras" ed apparteneva quindi a coloro che l’avevano persa. La sera prima Sandra, la ragazza che mi aveva dato un passaggio sino a Masaya, mi aveva detto che poco era cambiato dopo la rivoluzione. Alla classe dirigente corrotta di destra, si era sostituita una classe dirigente corrotta di sinistra, i poveri, cioè praticamente tutti gli altri, erano rimasti poveri. Anche i medici erano in sciopero ... E’ quindi difficile parlare di vinti e vincitori.

Roberto gli aveva sparato a Lindford

Lindford non sta più ne da una parte ne dall’altra, tanto che il suo partner in affari, Roberto, è un Hondureño che nel corso della rivoluzione gli aveva sparato addosso, essendosi arruolato tra le fila dei sandinisti. Mentre discutevo con loro avevo l’impressione di rivivere un vecchio film in bianco e nero degli anni cinquanta, poco o nulla era sicuramente cambiato nel corso degli ultimi decenni in quei luoghi. I dintorni di Masaya li conobbi aggregandomi ai miei due nuovi amici, simpatici, sicuramente un poco matti, che mi condussero con loro il giorno seguente ad un appuntamento d’affari. Incontrai così una comunità dedita all’artigianato del legno. I loro prodotti e la loro abilità manuale si rivelano di qualità stupefacente, ma mancano loro sbocchi verso mercati stranieri ove poter vendere i manufatti. Ecco appunto l’affare che Lindford e Roberto avevano in corso. Le trattative nella "finca" (fattoria) potrebbero essere comparate ad una grande festa locale, tutti si divertono, si mangia, si balla, poi ad un certo punto si siedono attorno ad un tavolo posto sotto una tettoia di rami di palma, per discutere seriamente del progetto. Ma è troppo tardi: Lindford non ce la fa più, è malato. La sua malattia sono la birra ed il rum, le sue medicine ... la birra ed il rum. Roberto, il suo socio, è molto seccato, Lindford ha perso sia la faccia che l’affare, ha però forse trovato una donna ... Lo lasciamo così in quel luogo e ci incamminiamo sulla strada alla ricerca di un raro mezzo di trasporto domenicale che, manco a dirlo, rimarrà inesorabilmente in panne dopo pochi chilometri.

2. L’amore per la Loren a Masaya

Il vulcano Masaya purtroppo si rivela essere ben poca cosa, alcuni sbuffi fumogeni ed un gigantesco cono immerso in una perenne foschia che impedisce di ammirare i paesaggi sottostanti. Anche quel fenomeno della natura, che sino a poche settimane prima mi dissero ancora roboante e spettacolare, pareva essersi assopito, come spento anche lui da quel clima opprimente. I giorni trascorsi in compagnia di Lindford e Roberto nella regione, hanno contribuito a rinfrancare il mio spagnolo e ad assuefarmi ai ritmi di vita ed alle abitudini locali. Il tassista che mi porta alla stazione dei bus (da leggere: luogo caotico, sudicio e dove si respira a pieni polmoni gas di scarico) è innamorato di Sofia Loren. Per tutto il tragitto mi fa partecipe del suo fermento per le gambe, i fianchi e altri requisiti dell’attrice italiana che mi descrive con dovizia di particolari. Il fatto che la mia parlata spagnola abbia un accento italiano, pare aver fatto scattare in lui una simpatia particolare nei mie confronti oltre a tanti ricordi reconditi che non esita a confidarmi.

Il "bus delle galline"

Il caldo diviene quasi insopportabile alcune ore dopo nel bus che mi porta alla capitale Managua. I miei amici Roberto e Lindford, che ho salutato da poco, lo chiamano "chicken bus" (il bus delle galline) ... il termine corrisponde letteralmente alla realtà! Grazie ai consigli da loro avuti prima della partenza mi oriento bene al mio arrivo ed evito tutti i piccoli trabocchetti che normalmente vengono tesi ai nuovi ignari visitatori nelle grandi metropoli sudamericane. Lascio così dietro di me due tassisti che vengono alle mani per accaparrarsi il cliente e mi allontano alla chetichella con un concorrente (il terzo gode!) per raggiungere poco dopo una zona dove, mi si dice, gli alloggi sono meno a rischio che in altri quartieri. La piccola pensione dove mi trovo ora appare effettivamente molto sicura. Praticamente è un "bunker": la porta con doppie inferiate, nessuna finestra esterna, l'unica luce giunge dal patio dove convivono una decina di animali tra gatti, cani, pappagalli e maialini d'India. Il mio soggiorno a Managua, città un poco inquietante, specialmente la sera, e dall'aria sempre più tossica, sarà quindi breve e due notti dopo trovo un posto su di bus che mi porterà dritto dritto, o quasi (siamo pur sempre in Centroamerica), alla capitale dell'Honduras, dove spero di trovare un ambiente più vivibile. Il passaggio della frontiera si rivela come sempre tormentato: controlli, cambio valuta, caos e dei curiosi carrettini con ombrello parasole che fanno la spola da un posto di dogana all’altro, trasportando bagagli e passeggeri.

Con "Titanic" a Tegucigalpa

Le ultime illusioni di trovare sull’altipiano un poco di sollievo dal caldo torrido svaniscono all'entrata di Tegucigalpa, dove un cartello luminoso posto sopra una pompa di benzina, segnala 37 gradi centigradi ... ed il sole è già calato. Oltre al viaggio di una giornata, si conclude pure il film trasmesso dal video di bordo il cui volume mia aveva letteralmente frastornato: Titanic, una strana coincidenza! Rimane quindi la calura anche dopo le dieci ore di viaggio e malgrado l’altura di Tegus (come qui viene chiamata la capitale). Sono però riuscito a scrollarmi di dosso le nuvole scure e la foschia di Managua e della aride coste dell'Oceano Pacifico, sempre in attesa della stagione delle piogge che quest’anno pare essersi dimenticata della scadenza. A Tegucigalpa mi trovo subito a mio agio, la città è ricca ancora di vestigia ispaniche molto caratteristiche: chiese, balconate in legno, stucchi ben conservati. Le strade del centro pullulano di persone e folcloristici venditori ambulanti, negozietti di ogni genere e tanta musica. La gente è estremamente cordiale, un connubio molto genuino di cultura india e spagnola ... salvo l'alimentazione. Per strano che possa essere nel centro della capitale dell'Honduras è molto difficile trovare un ristorante dove vengono serviti piatti locali. Lo strapotere dei "fast food" americani è incredibile. Mentre gironzolo in città e nei suoi dintorni, i miei pensieri vanno però sempre più spesso alla prossima meta, come se il viaggio vero e proprio debba cominciare solo al momento nel quale avrò attraversato da ovest ad est l'America centrale, per raggiungere le coste caraibiche dell’Atlantico. Da li intendo risalire le vie fluviali e scoprire una delle zone più selvagge del Centroamerica: la Moskitia.

La Moskitia? Fai attenzione!

Le poche notizie su questa regione che apprendo dai giornali non sono un gran che: una sommossa dei contadini locali nei confronti dei loro latifondisti a Trujillo e presunti traffici di droga più a sud. Le persone locali che incontro non mi aiutano molto, alcuni dicono che è una regione bellissima, altri molto pericolosa ed abitata da popolazioni indio primitive, altri ancora inventano le storie più stravaganti o non si esprimono. Con questi interrogativi ed alla ricerca di informazioni più rassicuranti raggiungo quindi alcuni giorni dopo finalmente l'Oceano Atlantico, dopo essere ridisceso dall’altopiano ed aver scoperto molti aspetti delle variegate caratteristiche paesaggistiche dell'Honduras. Da palme e banani che si confondono tra pinete, a foreste tropicali lussureggianti, quindi pianure aride e laghi, fino a raggiungere il mare. Tela, piccola cittadina caratteristica costiera, culla della vivace cultura garifuna - i discendenti diretti degli schiavi africani - , è situata ai margini di infinite piantagioni di banane e di palme da cocco e si affaccia su di uno splendido mare. Nemmeno là troverò però molte risposte ai miei quesiti e ancora meno informazioni rassicuranti sulla Moskitia. Al contrario il soggiorno si rivelerà certamente divertente ma alquanto travagliato e non privo di preoccupazioni ed imprevisti.

3. Tela: spari e musica

Sento improvvisamente degli spari, sono molto vicini, provengono dalla spiaggia. Una piccola pausa, un grande silenzio e poi ancora altri spari, grida e colpi di mitraglietta. Mi precipito all'interruttore della luce, rimango così al buio e cerco di sincerarmi della situazione sbirciando tra le grate della finestra. Tela è una cittadina simpatica, palpitante, sicura di giorno, ma un poco "far west" di notte. La mattina Jorge, uno dei due "vigilantes" (guardiani) della pensione dove alloggio, ridendo mi dice "ningun problema" - nessun problema -. Non è successo niente, forse una festa. Non si è nemmeno accorto degli spari, anche se il tutto deve essere accaduto a non più di trenta metri da li. Me lo dice con estrema serietà e con tono rassicurante, per lui tutto è tranquillo ... Intanto se ne sta li ogni notte seduto sui gradini della porta d'entrata con una coperta addosso ed in mano un lungo machete. Non so quali siano le garanzie di sicurezza che possa dare il suo "armamento", in una località dove ogni sorta di arma è alquanto comune. Si vedono giovani in bicicletta con mal celate pistole sotto le magliette, clienti nei ristoranti che prima di sedersi pongono la propria pistola sul tavolo, incuranti dei tanto consueti cartelli affissi alle entrate dei luoghi pubblici con scritto "no armas". Non fa eccezione a questa consuetudine Luciano, che mi mostra oltre al machete sul bancone del bar, anche un pistolone, pronto colpo in canna nel cassetto.

Un napoletano tra i garifuna

"Sei italiano", mi aveva domandato poche ore prima con un accento che lasciava intuire la sua poca affinità con la Lega Nord di Bossi, incrociandomi per strada a cavallo della sua mountain bike. Luciano vive qui con una ragazza del luogo, si è lasciato dietro di se un'Italia per lui troppo regolata da leggi, da prescrizioni di comportamento e forse ipocrita. A Tela infatti la vita pare essere certamente più libera ed individualista, il prezzo da pagare per quanto concerne la sicurezza è però alto. Luciano si affeziona a quello svizzero che ragiona un poco come lui, che gli porta aria di casa laggiù e che parla la sua lingua, anche se per finire tra di noi finiamo sempre per conversare ancora in spagnolo. Sono infatti ambienti e culture che ti prendono e che ti penetrano nella pelle. Gli odori tropicali, le musiche onnipresenti ed i suoni della natura, appena ci si allontana dalle case. Sensazioni diverse che scopriamo assieme gironzolando nei villaggi dell'entroterra, dove vivono in casupole di legno ed argilla i "mistizios". Sono comunità miste indio-ispaniche quasi dimenticate dal mondo, perse in una folta e generosa vegetazione tropicale dove scorrono rinfrescanti corsi d’acqua. Sulle coste incontriamo gli allegri "garifuna", discendenti degli schiavi africani che furono portati in queste regioni per lavorare nelle piantagioni. Lontani dalle città ed in un paese quale l'Honduras, ancora un poco ai margini del mondo, hanno conservato molti aspetti originali della loro cultura. Una lingua africana, culti e tradizioni antiche ancora praticate, alle quali spesso si sovrappongono forzati elementi ispanici e cristiani e per terminare: la musica. La punta: la melodia tradizionale, dai suoni affascinanti, ritmi che vengono da lontano, forse ancora più lontano dell'Africa. Gli strumenti ancora utilizzati oggigiorno sono incredibili: conchiglie, gusci di tartarughe e curiosi strumenti a percussione.

Un giorno intero ad intrecciare capelli


La vita trascorre lenta qui. Lisa, una giovane ragazza incontrata sotto le fronde di un albero, sta facendo le treccine ai capelli di una sua amica. E’ li dal mattino, ora è mezzogiorno e ne avrà ancora fino a sera ...
Alcune donne nei pressi delle casupole fanno i loro bucati in grandi bacinelle d’acqua appena estratta dai pozzi, altre preparano i pasti arricchiti dall’immancabile latte di cocco. I bambini corrono nei palmeti vicino alla spiaggia. Lenti carri, trainati da muli attraversano stancamente i villaggi dove i pescatori ritornati dal mare all’alba, ancora dormono dondolanti nelle amache.
Il gracchiare del pappagallo della pensione mi riporta alla realtà e mi fa abbandonare i confusi ricordi dei giorni trascorsi nella regione di Tela che ero intento riordinare. Guardando il mare, seduto su quella vecchia sedia arrugginita posta sulla veranda, con la brezza rinfrescante che giunge dal mare, mi stavo godendo quell'ultima sera, quell'ultimo tramonto che intravedevo tra i rami di una palma. Domani ripartirò finalmente verso la Moskitia, la vera avventura comincerà presto, l'allegria dei garifuna e gli spari, che con inquietante regolarità ho sentito nel corso delle notti trascorse qui, forse non sono stati che un avviso. Forse, appunto, perché la Moskitia si rivelerà ben diversa da quella regione tanto inospitale, abitata da popolazioni primitive che qui molti sconsigliano di visitare.

4. Addio vecchio garifuna

Il vecchio "garifuna" invalido, la pelle nerissima ed i capelli bianchi, oggi non c’era. Trascorreva le sue giornate sdraiato di traverso sul marciapiede ed ogni mattino dovevo scavalcarlo per raggiungere la suggestiva piazzetta centrale, dove i giornalai vendono i quotidiani locali. Non eravamo amici. Era di pochissime parole, ci sorridevamo, lo salutavo e forse lui mi era riconoscente per questo: perché mi accorgevo che ogni giorno lui era lì, che esisteva nell’indifferenza di tutti. Mi è dispiaciuto molto che non fosse al suo posto proprio quando sono partito. Fedele davanti alla televisione era invece, come sempre, la "duena", la proprietaria della pensione che nei giorni trascorsi a Tela mi si era un poco affezionata. Tanto che per congedarsi ed augurarmi buona fortuna si era addirittura scomodata dalla poltrona posta perennemente davanti allo schermo televisivo. Da quel luogo dirigeva la pensione, ma pure era lì dove si faceva portare i pasti ed era ancora a quel medesimo posto quando sonnecchiava nel pomeriggio ... la televisione rimaneva sempre accesa.Luciano - l’italiano conosciuto a Tela - e la sua amica mi hanno accompagnato fino alla stazione di partenza dello sgangherato bus, col quale mi appresto ad affrontare la prima tappa in direzione della Moskitia. Forse non ci vedremo più. Se quello che troverò alla Moskitia costituisce tutta un'incognita, la tremenda certezza è invece rappresentata dalla fornace dall'abitacolo del bus. Il mio viso è grondante di sudore, i miei abiti sono fradici come se mi fossi appena gettato vestito nel mare. Non resta che lasciarsi incantare dagli stupendi paesaggi che scorrono accanto alla sconnessa carreggiata che percorriamo. La vegetazione è lussureggiante, verdissima. Casupole d'argilla con tetti di foglie costeggiano la strada che porta verso al città.

Scarpe col tacco in case d’argilla

Ad ogni sosta del lentissimo bus escono dalle povere abitazioni giovani donne con vestiti sorprendentemente eleganti e dalle stoffe sgargianti, scarpette nere con tacco, ampi cappelli colorati e trucco civettuolo. Anche la povertà ha una sua dignità. E' impossibile, o quasi, raggiungere la regione della Mosktia via terra, non mi restano quindi che due alternative, dei battelli cargo dalle scadenze irregolari, che però non riesco a trovare, o i piccoli aeroplani che una volta la settimana (ma anche questo è abbastanza aleatorio) collegano La Ceiba con Palacios. Faccio quindi tappa a La Ceiba, la capitale delle regione caraibica dell'Honduras, animata di giorno, ma forse un poco stranamente annoiata la sera. Alloggio per la cronaca in uno squallido alberghetto gestito da una famiglia garifuna che sconsiglio anche alle persone che mi sono un poco antipatiche. Trovo quindi sorprendentemente senza problemi un posto su di un piccolo velivolo di una compagnia aerea privata locale. Siamo in pochi sul bimotore: una vecchia signora dalla pelle scurissima, una mamma con attaccato al seno un lattante ed un composto manager che però ci lascia ad uno scalo intermedio non previsto(!).
Il cielo si schiarisce proprio nell'imminenza dell’atterraggio. Durante tutto il percorso ho avuto l’opportunità di meglio comprendere dall'alto cosa significhi una catastrofe ecologica. Miriadi di fuochi accesi nella foresta per fare spazio a coltivazioni, mandavano i loro densi fumi verso il cielo che si scuriva totalmente per chilometri, nascondendo il sole ed il calore rimaneva bloccato, come in un forno tra la terra rossastra e le basse nuvole. Poi ampie strisce aride, ferite nella foresta lasciate da coltivazioni abbandonate, nelle quali nulla si rigenera più. Pareva il preludio di un'apocalisse ecologica di cui avevo già avvertito tutta la gravità in Nicaragua, ma le cui conseguenze future per la regione non erano a quel momento nemmeno lontanamente immaginabili.

Il tuctuc, ma per dove?

"Ti consiglio di prendere quel tuctuc", mi dice Don Felix," altrimenti per alcuni giorni non ti muovi più da qui". Il tuctuc è un’originale e modesta imbarcazione con motore fuoribordo, guidata tramite uno strano manubrio collegato al timone con un intreccio di corde. La denominazione proviene proprio dal rumore che generano quei vecchi motori, singolari mezzi di propulsione. Pare essere questa l'unica possibilità che mi si presenta appena atterrato a Palacios, di proseguire in direzione del cuore della Moskitia. Palacios è una località incantevole di poche povere casupole. E’ situata ai bordi di una tranquilla laguna separata dal mare da una sottilissima striscia di terra sulla quale s’intravedono gli ultimi insediamenti delle popolazioni garifuna ed i primi degli indios e dei meticci. Regna una grande pace qui. Il piccolo aeroplano è atterrato su di campo sportivo con pochi ciuffi d'erba. Se non fosse stato per una ventina di persone che da sotto le palme osservavano con distaccata curiosità l’arrivo dell’aereo, la località sarebbe apparsa come disabitata, quasi assopita. Devo però prendere una decisione in tutta fretta, il tempo per informarsi meglio sulla destinazione della barca non c'è. Carico quindi lo zaino e parto, chiederò poi quando sarò ammucchiato a bordo con gli altri passeggeri e le loro mercanzie dove stiamo andando.

5. Un villaggio non indicato sulla mappa

La piccola Cecilia mi mostra un gattino spelacchiato, poi arriva la cuginetta con un vasetto di noci indigene tostate ed ora giunge pure la mamma con due maranan cotte, un frutto rossastro terribilmente dolce. Sul prato pascolano due cavalli in compagnia di altrettante mucche, invero un poco magroline. Gli unici rumori sono le onde del mare, il fruscio delle foglie al vento ed i canti degli uccelli. Di questo luogo ne ignoravo l'esistenza, non era segnalato su nessuna cartina. E' una piccolissima comunità di indiani miskitos, situata su di una striscia di terra di poco più di un centinaio di metri sulla quale da un lato si infrangono con fragore le onde dell'Oceano Atlantico e dall'altro è lambita dalle tranquille acque di una laguna immensa. Tutt’intorno una grande pace. Gli spari di Tela, i vigilantes, le insicurezze appartengono a ricordi che paiono essere molto lontani. Qui inizia la Moskitia, quella regione che mi era stata sconsigliata, isolata dal mondo ed abitata da popolazioni poco ospitali ...Vi sono giunto per caso, è il men che si possa dire. Prendendo d'intuito quell'unica piccola imbarcazione, chiamata "tuctuc", in partenza a poche decine di metri dal luogo dell'atterraggio del piccolo bimotore che mi aveva portato ai margini di una delle regioni più isolate del Centroamerica. Attraversata una tranquilla laguna la barca è penetrata a fatica in stretti canali, profondi solo poche decine di centimetri, che si insinuavano in una folta vegetazione. Per lunghi tratti è stato necessario avanzare a colpi di pagaia, s’intravedevano fugacemente uccelli colorati e splendidi fiori, mentre i forti raggi del sole raramente facevano capolino tra le foglie.

Sballottato tra le onde della laguna

Improvvisamente la vegetazione si apre e mi trovo sballottato tra le onde di una ventosa ed immensa laguna, con spruzzi d'acqua dai quali è impossibile ripararsi. Il motore a tratti gira a vuoto, esce dall'acqua e solo a fatica l'elica ritrova un supporto. Inizia quindi una serie di rocamboleschi attracchi nei pressi di piccoli villaggi che si affacciano sulle sponde del vasto specchio d’acqua a poca distanza l'uno dall'altro. La barca si svuota pian piano, ma io decido di proseguire fino al capolinea, del quale non conosco ne nome, ne distanza. I nomi dei villaggi raggiunti mi vengono invero detti dagli altri passeggeri, mentre il concetto di tempo e distanza non è di questi luoghi. Dopo diverse ore, il ragazzo responsabile del timone mi mette una mano sulla spalla e mi dice che al prossimo villaggio avrei trovato una famiglia molto gentile sicuramente disposta ad accogliermi. All'arrivo infatti mi prende in consegna Marlen, una cordiale signora che si preoccupa subito di offrirmi del cibo: un uovo, degli spaghettini e la mia passione, la manioca fritta. La cena di benvenuto è accompagnata da un bicchiere d'acqua da me come consuetudine sterilizzata con una pastiglietta ed arricchita da un paio di gocce di limone verde. L'oscurità sopraggiunge rapidamente, sono appena passate le sei e non vi è nessuna illuminazione. Al buio mi accompagnano in una capanna che diverrà il mio alloggio per i prossimi giorni. Sono molto stanco ed ancora fradicio dalle docce involontarie riservatemi dal viaggio in tuctuc. Il sonno prende presto il sopravvento e mi assopisco coi suoni della vicina boscaglia e di quelli di rane e grilli. Alle prime luci del mattino scopro quindi finalmente la comunità, le sue poche casupole in legno, in parte poste su piloni, i tetti di foglie intrecciate. Sono abitate da gente molto cordiale che non si fa molti problemi per la mia presenza, come se fossi lì già da molto tempo. Trascorro così le ore in serenità, incontrando e conoscendo le persone che fanno capo tutte ad un'unica grande famiglia. Il capostipite è un arzillo vecchietto che mi dice avere ben oltre gli ottant'anni e che all'ombra di una palma passa ore ed ore ad intrecciare foglie che verranno poi utilizzate per i tetti delle capanne.

Festa della mamma senza ... mamme?

Domenica è il giorno della festa della mamma, una ricorrenza che pare essere molte sentito e quindi sono molto curioso di vedere i festeggiamenti che sono previsti sul piazzale di una vicina scuola. Moltissimi bambini vi giungono di buon'ora, abbigliati a festa e pronti per le recite che col maestro per varie settimane hanno preparato. Unico neo: le madri non ci sono. Vi è molta costernazione da parte di tutti, a tanto impegno dei ragazzi viene corrisposto un disinteresse quasi totale dei genitori. Con due ore di ritardo la festa ha comunque luogo, nel frattempo con calma sono giunte pure le mamme, l'inconsueta operazione di abbigliarsi a festa, recuperando tutti gli abiti più eleganti che avevano forse per mesi, se non anni, celato in un qualche angolo della capanna, necessitava il suo tempo. Le recite e le danze molto belle e genuine si spengono poi nella calura della giornata che richiama tutti all'ombra delle fronde degli alberi o sotto i tetti delle capanne. Don Roberto - così ormai sono noto-, nome che è riecheggiato più volte nell'ambito dei discorsi delle celebrazioni del mattino, si accomiata a fatica, tutti vorrebbero parlargli e conoscerlo, trovare con lui uno di quei momenti di novità che forse qui mancano. Altri villaggi mi attendono però e riprenderò presto il cammino verso le zone più isolate della Moskitia.

6. L’emozione dell’incontro con Don Sixto

Don Sixto è un punto di riferimento qui. Di lui avevo già sentito parlare da parte di più persone ed addirittura il suo nome era accennato su di una guida dedicata alla regione che ero riuscito a trovare prima di partire. L'ho incontrato con emozione questa mattina nei pressi della sua capanna, in un villaggio raggiunto dopo poco più di due ore di cammino dalla comunità di indios miskitos che mi aveva ospitato gli ultimi giorni. Si appoggiava su di un bastone, la gamba ed il braccio sinistro praticamente paralizzati, le conseguenze di un ictus che l'aveva colpito di recente, ma in lui la mia presenza suscita molta gioia e tanta voglia di parlare, di raccontare. Don Sixto è infatti il miglior conoscitore dei fiumi che penetrano nelle zone più discoste della Moskitia ed i suoi consigli sono preziosi. Mi offre uno spuntino, ma soprattutto l'assistenza di suo figlio Rolin che mi farà da guida nei giorni successivi, nel corso dei quali con una grande canoa, ricavata da un unico tronco di legno, risaliremo le vie fluviali verso le zone più isolate.

Inizia la grande avventura

Il ramo principale del fiume lo raggiungiamo addentrandoci in strettissimi canali di una boscaglia paludosa. Il letto del fiume si insinua quindi con un tracciato tormentato tra una vegetazione lussureggiate. Ammiro con rispetto piante gigantesche e bambù di oltre venti metri, dimensioni che mai avevo visto in passato. Sugli argini del fiume, solo alcuni metri sopra il livello delle acque, a tratti compaiono le casupole di meticci che a fatica colonizzano la regione. Gente poverissima che tenta di conquistarsi un lembo di terra nella foresta tropicale, si accontentano di pochi metri quadrati da coltivare che garantiscano loro e alla loro famiglia sempre numerosa la sopravvivenza. Condizioni di vita che ho avuto modo di meglio conoscere nel corso delle brevi soste nei momenti più caldi della giornata. Le capanne sono costituite da alcuni pali conficcati nel terreno, un tetto di foglie, nel migliore dei casi delle pareti di argilla, il tipico forno bianco miskito dalle forme arrotondate e poche vettovaglie. Eppure sono stato accolto ovunque con gioia e simpatia, da sorrisi e sincere strette di mano.

Immersi sino alle cosce nel fiume

Il viaggio è affascinante, si ha la sensazione di entrare in un altro mondo. Vi è una luminosità diffusa, il sole è come filtrato da un impercettibile strato di nebbia, gli orizzonti sfumati e tutt’intorno una foresta che pare non concedere spazi. A tratti incontriamo piccole imbarcazioni: canoe spesso stracariche che in un rispettoso silenzio scorrono sull’acqua tranquilla trasportando ortaggi, spesso banane, e vettovaglie. Il magico silenzio, quasi irreale, è interrotto dalle voci dei bambini che giocano e dai canti delle donne che lavano i panni nel fiume immerse fino alla vita nell’acqua. Poi solo il fruscio dell’acqua che scorre e quel "tuctuc" del nostro motore che sempre più spesso deve venir spento per proseguire a forza di pagaia. Otto ore, spesso sotto un sole molto forte, sono state necessarie per raggiungere una regione isolata dell'entroterra. L'ultimo tratto lo abbiamo percorso quasi tutto a piedi, immersi fino alle cosce nelle fresche acque del fiume. Il flusso d'acqua, malgrado l'incredibile abilità e sangue freddo di Rolin, non permetteva più né la navigazione a motore né quella a remi, cosicché è stato necessario spingere per alcuni tratti contro corrente il pesante barcone. Ripetutamente ci troviamo la strada sbarrata da giganteschi tronchi d’albero caduti nel letto del fiume, ostacoli che sormontiamo anche con un poco di fortuna.

Un idillio nel bel mezzo della foresta

La bellezza del villaggio raggiunto verso sera, col cielo già colorato di rosso, mi avrebbe però ricompensato di tutte le fatiche. Il luogo è semplicemente idilliaco, vi regna una gran pace ed ogni colpo d'occhio è un quadro che si fissa con entusiasmo nella mia mente. Vi è un senso di ordine, di serenità, di perfetta sintonia tra le persone e la natura. L'erba ben tagliata attorno alle casupole della comunità indios miskitos, abbellite da piante e fiori tropicali ben curati, le tranquille acque del fiume che scorrono poco sotto e sulle quali a tratti transitano solo le canoe degli indigeni. E' un idillio nel bel mezzo della foresta tropicale. Qui sono le piccole cose che segnano il passare del tempo e la presenza della vita. Una madre che gioca con la figlioletta nel fiume, un cacciatore che si riposa su di un’amaca, un cane che rincorre un vitello, un magnifico uccello dagli intensi colori rosso e nero che mi spia dai rami di un albero di papaia e, quando cala la notte, lo strano ed intenso gracchiare delle rane e lo scoppiettio dei fuochi che vengono accesi.

7. Fino a quando i grilli cantano

Donna Rutilia è una indios di sangue misto miskito-pech (i due gruppi etnici della regione), i lineamenti indiani molto pronunciati, il naso appuntito in linea con la fronte, grandi orecchie ed un'espressione dolcissima. Rutilia mi ha accolto quasi con timidezza e ora mi ospita nella sua casa. In questo momento sta preparando la cena - come sempre pasticcio di fagioli, uova strapazzate e banane fritte -, mentre io mi ritempro con la fresca brezza che scende dalle montagne. Siedo su di un curioso seggiolino di legno, con schienale inclinato e non più alto di trenta centimetri. Anche Rolin, il figlio di Don Sixto che mi ha fatto da guida, col quale si è instaurata un'intesa piena di rispetto e di fiducia reciproca, si riposa. Si è appena concesso, come me poco prima, un bel bagno rinfrescante nelle tranquille acque del fiume che abbiamo risalito alcuni giorni or sono fino a raggiungere questo sperduto luogo nel profondo della foresta tropicale.
Pure lui soffre il caldo e mi dice che fin quando i grilli saranno così rumorosi la stagione delle pioggia è ancora lontana e questo fatto preoccupa un poco tutti. Anche qui giungono così purtroppo indirettamente le conseguenze di fenomeni meteorologici estremi quali "El Niño", probabilmente causati da disboscamenti e inquinamenti industriali delle grandi metropoli, distanti centinaia di chilometri. Forse sono state proprio queste popolazione ad aver maggiormente dovuto subire solo poche settimane dopo la terribile vendetta della natura, martoriata da tanti atteggiamenti sconsiderati degli esseri umani, errori per i quali proprio loro, gli indios miskito e pech che vivono così in perfetta sintonia con l'ambiente non hanno nessuna colpa.

Quel micidiale tenero vecchietto

E’ compito del padre di Rutilia indicarmi i sentieri nella foresta e le principali piste verso le altre comunità indios più vicine. Un arzillo settantenne, dall’aspetto debole e mal messo, ma dal passo regolare e sorprendentemente rapido. Ben presto abbandono tutto il rispetto nei confronti della sua anzianità. Al più tardi in ogni caso quando sono costretto a domandare la prima sosta di riposo a quel vecchietto le cui forze parevano dovessero mancare da un momento all’altro, ma che però continuava imperterrito su e giù per i sentieri, rendendomi attendo nella micidiale calura della giornata ai diversi suoni della foresta ed ai canti degli uccelli. Mi è parso quasi si sentisse in colpa per avermi fatto camminare troppo quando finalmente tutto sudato mi sono seduto sotto di un albero nei pressi di un ruscello dalle acque molte scarse. Nei giorni successivi, da solo, ho quindi iniziato a meglio conoscere la regione. Ho percorso chilometri di marcia, fermandomi frequentemente a conversare - spesso a fatica- con gli indios che incontravo. Cacciatori sulle piste nella foresta o coltivatori nei campi. A volte attraversavo piccoli villaggi dove le giornate parevano trascorrere tranquillamente sugli spiazzi sterrati davanti alle capanne, nelle amache o sugli scalini che portano agli usci delle semplici case dove gli indios amano spesso sedersi. Ho visitato così piccole comunità Miskitos e Pech, con case in legno o argilla, povere abitazioni ma dove ho trovato molta simpatia e sincera accoglienza ed un caffè sempre pronto per l’inatteso ospite. Nei miei spostamenti ho sempre mantenuto come riferimento il letto del fiume, punto di orientamento che per me sarebbe stato fatale perdere di vista. Sul fiume trascorre tutta la vita di questa gente, è la fonte di acqua e di trasporto, il luogo dove si lavano i panni e dove ci si incontra.

"Check in" fai da te

Come ogni sogno anche per questo giunge l'ora del risveglio. Con tristezza, ma contemporaneamente pure con gioia, saluto i miei amici, molti li intravedo ancora dalla canoa discendendo il fiume di primo mattino, quando ancora sulla superficie dell'acqua aleggia una leggera nebbiolina ed il cielo è roseo. Accorrono sugli argini e mi fanno ampi gesti di saluto. Forse non li rivedrò mai più e nemmeno so cosa sia stato di loro dopo la terribile alluvione che ha investito il Centro America poche settimane dopo.
Sono questi gli ultimi pensieri che mi corrono per la testa dopo aver ancora riso dentro di me di gusto per il ricordo di quell'ultimo check in nella sede della linea aerea locale a Palacios. Una casupola in legno, contrassegnata da un vecchio cartello indicante "Islenas Airlines", in un angolo giaceva un plico di scontrini per i bagagli ed un foglio per la registrazione dei passeggeri con due nomi. L'addetto mi dice che devo fare da solo il check in, lui non è molto pratico (capisco che probabilmente non sa scrivere) e nemmeno poi tanto sicuro che giunga oggi un aeroplano a riprendermi ...

Gioia e dolori, spari e luoghi paradisiaci, incertezze e sicurezze, viaggiare è anche tutto questo, un confronto continuo nel quale tutto diviene relativo. Dissi un giorno ad una viaggiatrice americana che a mio avviso la differenza tra un turista ed un viaggiatore consiste nel fatto che il turista pensa molto meno che a casa, mentre il viaggiatore molto di più. In queste regioni del Centro America si può essere solo viaggiatori.


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