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Da Lugano a Luganville, Vanuatu
di R. Schneider


1. Verso gli spericolati saltatori di Pentecoste

"Leveremo l'ancora domani o forse dopodomani, appena avremo terminato di caricare", sentenzia con un sorriso amichevole e con cipiglio rassicurante Maxim, il capitano dello sconquassato cargo Belama II (il Belama I non mi è ancora ben chiaro se non sia mai esistito o se sia affondato di recente ...). Da alcuni giorni ormai il primo appuntamento del mattino è al porto, prima attendendo il Belama II, annunciato sempre in arrivo da un momento all'altro e quindi, finalmente giunto in porto, per conoscerne il momento della partenza verso le isole del nord. Come i giorni precedenti però nessuno sembra essere informato sui calendari di viaggio (nelle settimane successive ne avrei poi compreso le ragioni), nemmeno lo stesso capitano e probabilmente nemmeno il cinese, proprietario del piccolo negozietto in città, che forse è eccessivo chiamare armatore. Il personaggio che pare essere ancora un cimelio della vecchia Cina, come fosse appena giunto dalla Shanghai del secolo scorso, è costantemente indaffarato a contare le merci del suo caotico magazzino, a calcolare col pallottoliere, a dare ordini severi ai pochi dipendenti, probabilmente suoi familiari. Pure lui mi dice che devo attendere e mi fa capire che il mio contributo alle coperture dei costi di viaggio non lo interessa molto. La merce vale molto di più delle persone.

Aspettando il cargo BelamaII

Giustamente il Belama II non è certo un battello da crociera, i pochi passeggeri si devono arrangiare a trovare un posticino in coperta o tra le diverse mercanzie. Un assembramento di ogni cosa, da noci di cocco a banane, da barche a vecchie macchine da cucire, da galline ad una mucca. Per un europeo che solo da pochi giorni ha lasciato nell'armadio di casa i suoi vestiti civili, sostituendoli con dei vecchi jeans e caricandosi in spalla un ormai vetusto sacco, questa attesa di diversi giorni comincia ad essere pesante. Non che manchi di attrattività l'idilliaca capitale delle Nuove Ebridi, dal 1980 indipendenti col nome di Vanuatu, località persa nei mari del Pacifico del Sud a quattro ore di volo dall'Australia, ma il mio obiettivo sono i saltatori dell'isola di Pentecoste, i precursori del salto nel vuoto da noi meglio conosciuto come bunguy jumping. La tradizione vuole che gli spericolati balzi a testa in giù da torri in legno di trenta e più metri, assicurati solo da liane legate alle caviglie, vengano effettuati a cavallo dei mesi di aprile e maggio ... e questa pare essere una delle poche scadenze precise di tutte le Vanuatu! Ho quindi ancora poco più di una settimana per percorrere i circa 200 km di mare che mi separano dall'Isola di Pentecoste. Port Vila cittadina ormai mi è familiare, ha tutto lo charme che ci si può attendere da una località dei mari del sud: una laguna con acque terse e turchesi, una via principale sulla quale trascorre quasi sonnolente la vita quotidiana degli isolani ed una popolazione molto cordiale che ancora ha la consuetudine di salutare ogni persona che incontra.

A Port Vila la gente ti saluta per strada

I locali non sono però di certo invadenti, al contrario sono forse eccessivamente riservati, quasi temessero di disturbare. Patrick costituisce un poco l'eccezione: lavora dietro la vetrina sopra la quale è affisso il cartello <Tourist Office>. Compensa una discreta carenza di informazioni con la simpatia. Per lo più fa riferimento a fatti e situazioni raccontati da amici, da parenti o da conoscenti per illustrare le attrazioni del suo paese. Delle molte isole dell'arcipelago ne ha visitate solo alcune di persona, ma con un poco di fantasia e con molto entusiasmo è capace di parlare per ore delle Vanuatu. Ride ascoltando i miei crucci col Belama II, probabilmente non riesce a capacitarsi di come si possa essere tanto ansiosi di raggiungere un'altra isola. A queste latitudini quando si dice di voler partire per fare visita ad un parente, probabilmente ha il medesimo significato di salutarsi per un paio d'anni ... ma anche questo lo avrei capito solo in seguito. Tra i tanti ottimisti incoraggiamenti di Patrick ve ne è però uno che mi suona interessante. Mi invita infatti ad andare all'aeroporto dove magari con un poco di fortuna è possibile trovare un posto su di uno dei piccoli velivoli che di tanto in tanto fanno la spola con le isole più a nord. L’agenzia della Vanair (la compagnia aerea locale), da me subito visitata in città è naturalmente bene informata su ogni i volo: tutto esaurito e nessun volo previsto verso le destinazioni da me richieste, mi dicono. Siamo però alle Vanuatu e quindi decido di recarmi comunque all’aeroporto.
"Vuoi prendere posto accanto a me?" mi chiede la mattina seguente il pilota neozelandese del bimotore che mi porterà a ... Pentecoste. Grazie Patrick, che colpo di fortuna!


2. Henry mi ospita nella sua capanna

Dopo aver quindi atteso invano per giorni, l'arrivo prima e la partenza poi del cargo Belama II, mi è bastato recarmi all'aeroporto, attendere un paio d'ore per sentir chiamare ad un certo momento il mio nome dall'inserviente del bancone del check in al quale mi ero rivolto in precedenza: <Mr. Roberto può partire, buon viaggio>. Quasi incredulo mi affretto a raggiungere il velivolo della Vanair parcheggiato a poche decine di metri, come avessi paura che all'ultimo momento possa ancora accadere qualche cosa, che i pochi sedili disponibili risultino già occupati, che improvvisamente non vi sia più carburante, che il pilota mi venga a dire che oggi non si vola, che ... Eccomi però seduto davanti ai comandi di volo con la cuffia in testa. Se non fosse per il supporto che mi permette di comunicare col pilota a fianco tra il fragore del motore, il cockpit potrebbe essere vagamente simile a quello della mia vecchia Alfa 33. Un paio di pedali, un mezzo manubrio che quando lo tiri verso di te si sale e viceversa si scende, un segnalatore d'altitudine con una freccetta per la direzione. Se hai caldo apri il finestrino, se hai freddo lo chiudi. Tutto molto semplice.

In volo sopra il vulcano attivo di Ambryn

Andrew, il pilota, contento di poter interrompere la routine quotidiana discorrendo con uno straniero, mi mostra dei nuvoloni dalla forma preoccupante, sono le fumate del vulcano di Ambryn, una grande caldaia ancora piuttosto attiva, non ha però attualmente un'attività esplosiva, la lava è la fonte di calore che produce le fumate alle quali andiamo incontro. Andrew mi tranquillizza, non vi sono problemi e mi chiede dove sto andando esattamente. Gli rispondo che non lo so, come poche ore prima non sapevo nemmeno che sarei finito a volare sopra di un vulcano, sto comunque cercando una comunità nella quale vengano fatti i tradizionali salti dalle torri, che qui chiamano "Nagul". Proprio dopo il vulcano il cielo sino a quel momento prevalentemente coperto si apre, sullo sfondo vedo le coste dell'isola di Pentecoste, circondate da acque di un azzurro intenso. Tra la foltissima vegetazione piccoli villaggi ed ecco la in basso l'emozione dell'avvistamento di una torre di legno che si erge sino a superare le cime delle piante più alte della foresta. Attorno una piccola rada. Con la testa fuori dal finestrino ne scorgo tre sino al momento dell'atterraggio su di uno sconnesso prato non lontano dal mare. Andrew mi da pure il nome di certo Henry, suo conoscente che abita però in un villaggio molto più a sud del luogo dell’atterraggio.
Alcune ore dopo sono accovacciato su di un seggiolino di non più di venti centimetri, appoggiato allo stipite della mia capanna in legno di bambù e paglia, all'ombra di un grande noce selvatico, dai curiosi fiori che al sole paiono dei batuffoli fluorescenti. Fa molto caldo ed il temporale tropicale di poco prima non ha fatto che rendere l'atmosfera ancora più umida. Il mare, bellissimo ed invitante è a pochi passi, ma purtroppo infestato di squali e nessuno nel villaggio si sognerebbe di farvi un bagno. Traspiro e mi sento piuttosto affaticato.

Dov’è Henry?

Non è stato infatti facile trovare Henry. Alla partenza del bimotore mi sono ritrovato tra pochi "ni vanuatu", così sono detti i locali, la cui preoccupazione prioritaria non ero certo io, bensì i carichi di mercanzia che dovevano faticosamente trasportare fino ai rispettivi villaggi. Inoltre Andrew pareva essere stata l'ultima persona incontrata che parlasse inglese. A Pentecoste l'annotazione della mia guida sul bilinguismo francese-inglese a Vanuatu pareva non essere nota. Mi ritrovai quindi davanti all'alternativa di salire sull'unica barca in partenza dalla spiaggia vicina o restarmene li, in mezzo a quel prato ad ammirare tutta quella esuberante bellezza della natura circostante. La scelta della barca si rivela forzatamente corretta, passando di villaggio in villaggio e chiedendo sempre di Henry, fatidicamente dopo un paio d'ore mi ritrovo al posto giusto. Inutile dire che sono stati per lo meno un poco sorpresi del mio arrivo, fatico a capire se sono più causa di disturbo o curiosità. Ma non ho certo il tempo di pormi molte domande, la priorità va alla necessità di trovare un luogo dove vi sia del cibo e dove possibilmente possa mettere un tetto sopra la testa. Il tetto è di foglie, il cibo è tipicamente locale a base di tuberi, frutti e verdure. Laplap è la pietanza tradizionale: jam grattugiato, impastato e cotto direttamente sul fuoco o nell'incavo di un tronco di bambù, servito quindi con un delizioso latte di cocco. Ma l'aspetto più bello del mio soggiorno consiste nella calorosa ospitalità che mi viene offerta che tento di ricambiare dando tutto quello che mi porto appresso e che possa essere loro utile.

Dalle onde del mare i resti del "grand monde"

Ida, la pelle scura, i capelli crespi e cortissimi, gli occhi dolci e capace di esprimersi dignitosamente in francese, è molto incuriosita dalle poche cose che nascondono le mie borse, come d'altronde tutti nel villaggio. Una semplice rivista con indicazioni turistiche sulle Vanuatu diventa fonte di eccitazione e crea l'avvenimento del giorno. Alcuni oggetti simili ai miei li hanno pure loro, sono vecchie ciabatte, magliette con più buchi che stoffa, bicchieri in plastica. Vengono dal "grand monde" mi dicono, sono vestiti e vettovaglie che riescono a recuperare quando il mare è molto mosso e porta a riva le cose più impensabili, gettate in mare da navi al largo e trasportate per miglia marine dalle correnti.
Con un fischio Myriam mi chiama, ha sentito alla radio della vicina capanna (tramite la radio vengono diffuse dalla musica alle notizie private, dai nomi delle persone decedute alle indicazioni di trasporto) che il Belama II è in mare, dovrebbe giungere nei prossimi giorni a Pentecoste. L'appuntamento con la cerimonia del Nagul è per sabato, se ieri speravo di poter prendere il cargo per giungere in tempo a Pentecoste ora devo sperare che lo stesso arrivi dopo sabato in modo da avere un mezzo per poter ripartire!

3. Il dramma all’ultimo salto, ma la festa continua

Col calare delle tenebre tutto si oscura rapidamente ed il villaggio comincia a vivere di ombre e di sussurri a volte impercettibili, di fruscii, di soffi di vento e dei sordi colpi di mortaio che provengono dalla capanna delle riunioni. E’ infatti il momento della cava, la cerimonia comune a tutte le culture melanesiane e polinesiane del Pacifico. Un infuso inodore che appare come acqua sporca, preparato tritando le radici secche di cava, poi imbevute di acqua e spremute tramite filamenti di guscio di noce di cocco. Le Vanuatu godono la fama degli infusi di cava più forti. Per chi, come me, non appartiene al villaggio si tratta un poco del rito di accettazione, un momento di riunione con le persone del villaggio nel quale si raccontano vita ed esperienze. Ieri notte ho offerto io il "giro" (ho procurato la materia prima) e non ho poi potuto più rifiutare la seconda e la terza tazzina, costituita da un mezzo guscio di noce di cocco. Sono così piombato in uno stato di piacevole tepore nel quale ombre e luci si confondevano e dove ci si sente pienamente partecipi di quell’ambiente che ti circonda. Sul sentiero che portava verso la mia capanna mi attendeva poi la grande prova, l’attraversamento al buio del piccolo riale, in equilibrio su di un tronco che funge da ponte. Sinceramente non ricordo bene cosa sia successo, ma sono arrivato asciutto sul mio letto, costituito da due assi di legno sopraelevate, sopra le quali mi sono premurato sin dal primo giorno di porre una zanzariera. Il discorso delle zanzare potrebbe essere lungo e tragicamente doloroso. Lo riassumo dicendo che si tratta di una lotta costante e che solo questo supplizio mi impedisce di apostrofare col termine di "paradiso" questo luogo sperduto.

Dal cerimoniale della cava al Nagol

Intanto mi adagio sempre più alla lentezza di questo ritmo di vita senza tempo, dove ogni cosa pare non debba e non possa mai cambiare. Accade così che il rito propiziatorio del Nagol, i salti nel vuoto a testa in giù da torri di oltre trenta metri, divenga l’unico momento in grado di scuotere dal tepore i villaggi dell’isola. Oggi è il gran giorno, uno dei sei o sette appuntamenti con le torri che annualmente vengono concordati ed equamente distribuiti tra i villaggi della regione. Tre settimane or sono furono gli amici del villaggio dove mi trovo ad esibirsi, oggi dovrò quindi intraprendere una marcia di poco più di un’ora per recarmi ad una comunità vicina. L’ultimo tratto di cammino è il più impervio, i consueti piovaschi tropicali hanno reso le piste nella foresta viscide e fangose e solo aggrappandosi a liane e piante si riesce ad avanzare. Dopo una settimana ritrovo per l’occasione altri viaggiatori. Pochi turisti partiti alcune ore prima con un piccolo velivolo privato da Port Vila e quindi trasbordati dalla pista d’atterraggio fino al villaggio del Nagol con una barca a motore. A dire il vero li incontro poco entusiasti, per loro il passaggio dalle comodità dell’albergo di Port Vila alla realtà di queste zone è stato molto repentino. Sono per la maggior parte già fradici per la pioggia, stanchi ed infangati per la camminata fino alla torre e pure per loro è cominciata l’impari lotta contro le zanzare.

Ogni testa che sfiora il terreno esalta l’ambiente

La foresta circostante, i ritmi delle danze, i saltatori pronti per la cerimonia, quella sensazione di stare per vivere qualche cosa di speciale, tutto ciò contribuirà ben presto a far dimenticare i disagi ed in un certo senso a farci sprofondare in una cultura che pare non appartenere a questo mondo. Ai piedi della torre, costruita con rami fissati l’un l’altro da liane e che pare in equilibrio precario, attendono i saltatori. Sono muscolosi, nudi, unicamente col pene ricoperto dal namba, il perizoma locale, paiono divertiti, ma col passare del tempo sono sempre più eccitati. Canti e nenie fortemente ritmate vengono ripetute senza sosta ed i passi delle danze sono sempre uguali, fino a creare col tempo dei profondi solchi nel terreno fangoso, quasi a voler sottolineare un legame con la terra. Ed i salti intendono infatti divenire propiziatori per un buon raccolto, quasi un atto simbolico di fecondazione del terreno, con un tuffo verso il basso e la testa frenata solo a pochi centimetri da terra dalle liane che, legate alle caviglie, si tendono sempre più. Il carico sulle articolazioni al momento della frenata deve essere tremendo, il minimo errore di calcolo può essere fatale. (Ognuno è responsabile della preparazione delle proprie liane.) Le conseguenze degli errori le ho viste nelle infermità di alcuni giovani del mio villaggio. I salti si susseguono l’un l’altro, così come ad un torrido sole si alternano violenti rovesci. Tutto prosegue incurante dei capricci del tempo, come se i saltatori e d i danzatori fossero posseduti da uno stato di estasi che li estrania dall’ambiente.
Così le altezze dalle quali si salta sono sempre più incredibili. Con gli occhi rivolti verso l’alto si attendono con trepidazione crescente i salti, ogni volta pare impossibile che sia ancora umano osare di più. Ma ogni salto, ogni testa che sfiora il terreno esalta l’ambiente. Un momento di silenzio quasi religioso al momento del volo, pochi secondi nel corso dei quali non paiono nemmeno più giungere i rumori della foresta, pare quasi che pure il vento smetta di soffiare.

L’ultimo silenzio, poi un sordo tonfo

L’ultimo silenzio: è il momento del salto conclusivo, quello dall’apice della torre, è il turno del "nambawa" (il "number one" - numero uno- in pidjan english, una delle lingue ufficiali delle Vanuatu). Un attimo di trepidazione ancora, poi il salto, i capelli biondi, non inconsueti a queste latitudini, che contrastano con la pelle scura, sembrano colorarsi d’oro. Ma qualche cosa non funziona, il salto pare non arrestarsi mai, si ode nel silenzio uno strano rumore, qualche cosa non ha tenuto, e subito dopo un agghiacciante tonfo, la testa che tocca violentemente terra, il collo che si piega. Un brivido percorre tutti, la pellicola del film sembra essersi fermata su quel fotogramma. Ma è realtà. Accorrono tutti. Il saltatore giace proprio a due metri da me, privo di sensi a terra, gli occhi con le pupille immobili rivolte verso l’altro, sangue fuoriesce dalla bocca. Viene rizzato in piedi dai compagni, trattenuto per i lunghi capelli, chiamato per nome ed intanto i canti riprendono come se nulla fosse, come se tutto ciò fosse, e lo è - come mi viene detto più tardi -, parte del rito. Sono minuti lunghissimi, poi un piccolo segno di vita, pare incredibile! Un quarto d’ora dopo il tremendo salto il "nambawa" viene allontanato a braccia, le gambe si muovono, è cosciente, cosa ne fu di lui non l’ho mai più saputo. Certo è che in quel momento è apparso a tutti chiaro che quel gioco con la morte non era solo un gioco...


4. Addio Isola di Pentecoste, ma non a ... Pentecoste

Oggi mi risveglio con ancora in testa quell’agghiacciante rumore di ossa spezzate, quel momento atroce dell’ultimo salto dal punto più alto della torre, un’impresa che pareva impossibile ... e forse lo era. Sono affaticato dall’estenuante cerimonia, ma forse ancor di più da tutta la tensione che ha accompagnato ogni salto. Il mio cuore pare battere ancora ai ritmi imposti dalle danze tribali e nella mente vi è la consapevolezza di aver fatto un passo avanti nella conoscenza di me stesso e forse di quel grande mistero che è la vita. Come se non bastasse poi, incredibilmente, nella notte è giunto a sorpresa l’ormai quasi fantomatico battello cargo Belama II, quel mezzo di trasporto che mi aveva tenuto inchiodato per giorni in attesa a Port Vila, la capitale delle Vanuatu, e che ora mi auguravo giungesse il più tardi possibile a Pentecoste. Il cargo infatti pare essere l’unica possibilità che mi permetta di lasciare quest’isola. Sono così stato svegliato bruscamente dai miei amici che, come usa, avevano diligentemente segnalato con un fuoco sulla spiaggia che vi era un passeggero da imbarcare. Ecco quindi spiegato il mistero dell’imprevedibilità del momento dell’arrivo dell’imbarcazione: più fuochi sulle coste, più merce e passeggeri da caricare, più si allungano i tempi di navigazione. Non solo i fuochi però ne rallentano i tempi di spostamento, ma pure le scadenze religiose.

A sorpresa nella notte arriva il cargo Belama II, ma ...

Così è avvenuto che dopo aver impacchettato in tutta fretta le mie poche cose nella notte al lume di una lampada a petrolio ed essere corso, sacco in spalla, sulla spiaggia, giungesse dal cargo una piccola imbarcazione con alcuni marinai i quali annunciavano che per onorare la festività di Pentecoste, dato che il capitano era profondamente cristiano, il battello si sarebbe fermato il fine settimana poco lontano, al largo del prossimo villaggio costiero. Quasi una beffa insomma ed il mio travagliato rapporto col Belama II pare così non aver fine. Intanto sono ormai passati alcuni giorni dal mio un poco rocambolesco arrivo nel villaggio di poche capanne, nel quale ho trovato ospitalità presso la famiglia di Henry, un cordiale ed alquanto riservato "ni vanuatu" (così vengono chiamati gli abitanti locali). Ci sono certamente ancora molte cose che devo comprendere della cultura e delle abitudini del luogo: in un certo senso ci osserviamo continuamente, cercando di intuire quale genere di comportamento reciproco sia il più adatto. Un fatto è certo: in questo villaggio non sono abituati ad avere visite! Piano piano vengo però integrato nel loro ritmo di vita quotidiano, partecipo discretamente a tutte quelle piccole attività che sentenziano il lento passare del tempo di questi luoghi. Alle prime luci dell’alba l’accensione del fuoco che inonda inevitabilmente la capanna di fumo, quindi la colazione a base di tuberi (come il pranzo e la cena), il controllo delle culture non lontane dal villaggio, le lunghe discussioni e le sieste nei momenti più caldi della giornata. Al tramonto il bagno rinfrescante nella pozza d’acqua poco oltre le ultime case del villaggio al tramonto. Questa mattina il cane di casa mi saluta con due leccate particolarmente calorose e la piccola Belinda, la nipotina di Henry, mi fissa con i suoi grandi occhioni scuri. Meriam, la moglie di Henry, è già da un po’ al lavoro tra il fumo della capanna, sta cucinando qualche cosa di particolare.

Il tradizionale laplap prima della partenza

Oggi è Pentecoste, ma non è questo l’avvenimento per questa gente più animista che cristiana, l’occasione è data dalla coincidenza della data di Pentecoste col giorno del mio compleanno ... e questo sull’isola proprio di Pentecoste! Il laplap domenicale (la tradizionale pietanza locale a base di jam, un tubero) è questa volta a forma di grande torta e viene cucinato secondo tradizione nella terra. Un buco nel centro della capanna nel quale vengono poste pietre ardenti, i cibi da cucinare e quindi il tutto è ricoperto di altri sassi e foglie di pandano. E’ l’ultimo saluto di questa gente genuina che lascio con molta tristezza. Ho appreso molto da loro e non è stato facile il giorno successivo vederli sempre più lontani sulla spiaggia fare ampi gesti di saluto mentre le rumorose macchine del Belama II incrementavano sempre più i loro giri. Mi rimane l’ultima immagine della sincera commozione di Henry, di Meriam e di tutti gli amici che mi avevano accompagnati sulla spiaggia alla partenza. Forse proprio in quel momento mi sono effettivamente reso conto di quante persone e di quanti affetti ero riuscito a conquistare in quei giorni trascorsi nel villaggio. Mi rimangono alcuni piccoli ma tanto grandi regali, alcuni cesti di foglie intrecciate, due ciondoli locali e tanti ricordi. Ma ora il viaggio prosegue, domani o forse dopodomani vedrò Luganville!


5. Nella notte verso Luganville ed i Namba

Mentre la nave ondeggia, il sole calando rapidamente appare come una gigantesca palla di fuoco che incendia l’orizzonte proprio dietro il vulcano di Ambryn. Presto è notte ed al caldo umido delle ultime ore della giornata si sostituisce una piacevole brezza che invade il ponte del Belama II, quella carretta dei mari che per così tanto tempo avevo atteso e che quasi incredibilmente mi trasporta ora verso nuove mete. Ad intervalli regolari, nella notte si intravedono fuochi di segnalazione sulle spiagge. Una piccola barca a motore si stacca dal battello cargo, raggiunge la costa, carica nel buio merce e passeggeri e ritorna. Così facendo il barcone base non si ferma mai, o quasi. E questo "quasi" ha un valore molto particolare. Infatti quelle poche volte che il battello arresta i rumorosi motori per poter caricare quantitativi importanti di mercanzia - spesso si tratta di copra (gusci di noci di cocco essiccati destinati all’industria cosmetica occidentale) -, le soste divengono interminabili. Nessuno può dire quando si ripartirà, o meglio tutti sanno che le caldaie verranno riaccese quando la merce sarà a bordo, ma i carichi giungono alla spicciolata, spesso con canoe che pazientemente fanno spola dalla costa. Ancora una volta sono confrontato col concetto particolare del tempo di queste isole melanesiane.

Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo

Ricordo una frase letta mesi or sono: "voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo" quanta verità in poche parole!
In coperta vi è molta collegialità e simpatia nei confronti di quell’unico strano passeggero bianco, del quale tutti vogliono sapere che cosa diavolo ci faccia su di quel mezzo di trasporto e di cui si osservano con molto interesse i complessi preparativi per la notte: quale novità deve essere ai loro occhi il mio vecchio sacco a pelo! Ho però dormito poco e male; per ore ho discusso (qui si dice fare del toktok - dall’inglese to talk=parlare) con passeggeri e membri dell’equipaggio, incrociando parole nel buio con le sagome dei loro visi scuri che mi attorniavano. Poi la forte umidità sopraggiunta nella notte, che mi è inesorabilmente penetrata nelle ossa. Infine uno strano risveglio con la nave ferma, ancorata in un anfratto della costa, ondeggiante nel silenzio e come persa nel buio, circondata da rocce scure e sagome di palme. Avevamo raggiunto le coste di Ambae, un’isola del nord sul tragitto per l’isola di Santo. Una fascia costiera che si sarebbe rivelata in tutta la sua selvaggia bellezza nel corso della giornata, con i suoi incredibili contrasti di colori delle nerissime rocce vulcaniche con la scogliere e la rigogliosa ed esuberante vegetazione di un verde intenso e luminoso delle colline.
Trascorro la giornata cercando riparo dai terribili raggi del sole. Di tanto in tanto uno spuntino: se ne va così l’ultima scatoletta di tonno rimasta nella mia riserva alimentare, che divido volentieri con alcuni passeggeri, i quali ricambiano con banane. Alimentazione che completo col rancio fornito dalla cucina di bordo: riso in una ciotola informe ed un poco arrugginita. Nelle lunghe ore di navigazione conosco pure Api (il nome "Api" è la versione in inglese pidjian di "happy" =felice). Di Api sono i preziosi consigli sulla sistemazione tra la mercanzia e le poche panche a disposizione del mio giaciglio per la notte, come pure le molte spiegazioni sui villaggi e le isole raggiunte nel corso della navigazione. Da lui è pure giunto un prezioso invito a soggiornare in un villaggio nei pressi di Luganville, che penso sarà quello tra i molti ricevuti che accoglierò. Sarà un’ottima base di partenza per scoprire in seguito la terra dei Namba, un gruppo etnico tra i più tradizionali delle Vanuatu.

Lungo le coste di Ambae accompagnate da delfini e dalle canoe degli indigeni

Dopo aver vissuto praticamente palmo a palmo - data l’incredibile lentezza del mezzo di trasporto- le splendide coste vulcaniche dell’Isola di Ambae, a tratti accompagnati dalle canoe degli indigeni e da delfini - animali che da sempre mi hanno affascinato -, ci accingiamo ad affrontare con qualche timore l’ultimo tratto di mare aperto che ci separa dall’Isola di Santo, che mi dicono essere particolarmente esposto alle correnti.
In effetti non serberò un grande ricordo di quest’ultima traversata, nel corso della quale ho avuto più volte l’impressione che il Belama II non potesse farcela, come se venisse costantemente ributtato indietro dalle onde e dal vento, mentre l’elica pareva girare a vuoto. Per non parlare poi del generale malessere di stomaco che ha colpito molti passeggeri, che però qui più che sentimenti pietosi, ha scatenato reazioni di ilarità e di scherno nei confronti dei malcapitati. Fortunatamente risparmiato da questa ultima prova, molto affaticato, tocco finalmente terra a Luganville, quella meta che solo per il suo nome mi aveva così tanto incuriosito. Saluto come fossero grandi amici i membri dell’equipaggio, il capitano Maxim e gli altri passeggeri ed in compagnia di Api m’incammino sulle strade di una invero un poco squallida Luganville, quasi nulla a che vedere purtroppo con la Lugano a me certamente più familiare. Quello che mi attende nel villaggio di Api sarà però tutt’altro che squallido e mi riserverà delle sorprese ...


6. Luganville non è certo Lugano

Un’altra giornata si sta concludendo. A fatica Api è riuscito a trovare la sua (!) casa ed i miei sentimenti nei suoi confronti sono ora contrastanti. La sua cordialità sul battello cargo e le interessanti informazioni ricevute nel corso delle lunghe ore di navigazione trascorse sul cargo Belama II, sono in contrasto con questo strano comportamento dal quale traspare tutto il suo disagio: come è possibile che non riesca più a trovare la sua abitazione in questo piccolo luogo? Finalmente chiedendo di casa in casa raggiungiamo quella dei suoi familiari. L’accoglienza è tiepida, quasi fosse un intruso. Ci fanno accomodare su di un tronco di legno al centro del giardino e quindi, un poco alla chetichella, escono dalle capanne tutti i parenti: gli zii, i fratelli, il padre e la madre. Ci stringono la mano e poi la maggior parte di loro scoppiano discretamente in lacrime. La mia confusione mentale è totale, cerco negli sguardi di chi mi circonda le spiegazioni che il mio raziocinio occidentale non trova. Mi si avvicina finalmente una sorella che in un francese un poco stentato mi dice che sono tutti molto felici che Api sia tornato a casa, era infatti partito per fare visita ad alcuni parenti dell’isola di Ambryn ... undici anni fa!

Una visita a parenti di ... undici anni

Il mio pensiero va a tutti coloro ai quali avevo confidato i miei crucci sui difficili tempi e programmi di viaggio; cosa avranno pensato di quel viaggiatore tanto preoccupato di dover attendere per altre due settimane un battello? Il soggiorno nella casa di Api - o meglio in una baracca di assi di legno adiacente - si rivela in seguito però essere molto cordiale e soprattutto contraddistinto da più spontaneità che non nel villaggio di Pentecoste. Dopo poche ore sono già integrato nella consueta vita della comunità. La località è più grande e comprende gruppi in rappresentanza delle differenti etnie delle Vanuatu. Un insieme affascinate di tradizioni diverse che fanno da cornice ad una Luganville assonnata: una lunga fila di negozi affacciati sulla via principale sulla quale transitano camionette sconquassate; pochi alberghetti mal frequentati e, per me, l’ importante piccolo ufficio della compagnia aerea locale Vanair, presso la quale mi affretto ad acquistare il biglietto per un volo verso il sud delle Vanuatu. Per completezza di cronaca preciso che il biglietto acquistato non fu in seguito mai registrato presso i responsabili dell’aeroporto e che quindi solo per caso il giorno del volo riuscirono a liberare un posto per il sottoscritto sul piccolo velivolo bimotore, giunto come consuetudine con ore di ritardo. Curiosamente in questi luoghi pare non funzionare mai niente, ma alla fine ci si ritrova quasi sempre al posto giusto ... basta solo avere tempo e pazienza. Nel breve volgere di una settimana avrò quindi l’opportunità di visitare, attraversando d’un sol botto da un capo all’altro tutto l’arcipelago, due luoghi storici per queste isole: Vanafu e Sulfur Bay.

Vanafu: qui scoppiò la rivoluzione

Padre Joel infatti è pastore di una non meglio identificata congregazione cristiana insediata in uno dei luoghi più tradizionali di Santo e delle Vanuatu: Vanafu. Qui scoppiò la rivoluzione che portò all’indipendenza delle Isole Vanuatu e qui sono ancorate più che in altri luoghi le tradizioni locali. Il namba è frequentissimo e qui è costituito da un perizoma sul pene, coperto da un lembo di stoffa svolazzante, il tutto fissato con una cintura di pelle. Così come pure sono consuete le gonne di paglia per le donne e quelle di foglie verdi di pandano per le bambine. Padre Joel, che incontrai sul battello e che gentilmente mi invitò a raggiungerlo in questi luoghi dopo aver visitato il villaggio di Api, vive qui ormai da anni, circondato e non lo nega, da un certo scetticismo della gente locale, ancora orientata verso credenze animiste ancestrali. La sua chiesa di canne di bambù immersa in un giardino di fiori è molto carina anche se austera, ben arieggiata ed aperta a tutti, ma ciò non è certo sufficiente per convertire molte anime. Joel non ne fa un dramma, è amico di tutti e vi sono dei momenti nei quali mi sono quasi convinto che un poco di animismo viva anche dentro di lui. Qui, anche se è stato il luogo dal quale è partita la rivoluzione, regna una grande pace, gli abitanti sono estremamente cordiali, le case costruite con canne di bambù, con i tetti di paglia che arrivano fino al terreno. La partenza è difficile anche da questo villaggio così bello, immerso in una vegetazione lussureggiante e ricchissimo di fiori, ma ormai questa è una costante per ogni viaggiatore. La cara famiglia di Pentecoste, poi l’amico Api e ora Padre Joel: quanti arrivederci dal sapore di addio.
Questi e molti altri sono i pensieri che mi scorrono per la mente durante il volo che mi porta dal nord all’estremo sud delle Vanuatu, guardando dall’appannato finestrino le sbiadite linee costiere delle isole poco sotto. Fa freddo, l’areazione deve essere difettata e non vedo l’ora di giungere a Tanna, ultima tappa di questo viaggio avventuroso. Mi hanno detto che il vulcano è in piena eruzione, ma ormai non so più come interpretare le informazioni ricevute ...

7. Nel cuore del culto del cargo

Da tre giorni sono giunto sull’isola di Tanna e siedo su di un grande tronco d'albero ricurvo su se stesso, le cui foglie mi proteggono da una noiosa pioggerellina. In questo luogo si dice sia nato e sia ancora praticato il culto del cargo. Anni fa alle credenze animiste si sovrapposero confuse idee cristiane: un essere supremo vivente nel cielo avrebbe dovuto portare ricchezza e benessere a tutti. Il caso volle che nel corso della seconda guerra mondiale del materiale venne disperso da alcuni aerei cargo proprio sulla regione. A quel momento parve a tutti chiaro che ciò fosse il tanto atteso arrivo del regalo divino. Nacque così e si diffuse in seguito in diverse isole del Pacifico il culto del cargo. Le divise US Army e quelle della croce rossa, contenute nei cassoni recuperati allora, sono ancora oggi abbinate a tutta la simbologia religiosa locale.

Un alzabandiera in vecchie divise US Army

Nei pressi di un gigantesco albero di banial, da poco tempo si è pure conclusa la cerimonia giornaliera dell'alzabandiera. Gli indigeni hanno intonato canti vagamente marziali, vestiti ancora con quelle vecchie divise americane, rattoppate e sgualcite, cadute dal cielo cinquant'anni fa. La fortuna sfacciata mi ha però portato per caso in questo villaggio fuori dal mondo proprio il giorno del cerimoniale della circoncisione. Un’importante festa locale programmata ogni tre, quattro anni! Sulla grande radura antistante il villaggio, da ore vengono ammassati regali. Attendo pazientemente. Di tanto in tanto odo in lontananza il suono generato da un vigoroso soffio in una conchiglia gigante. Intravedo movimenti e preparativi nelle capanne, ma nulla accade ancora. Cathy, una gentile ragazzotta che mi ha condotto sin qui, mi dice di pazientare, la festa comincerà ...
Non è certo ora, dopo tutte le peripezie vissute nel corso di queste settimane alle Vanuatu, che divento impaziente. Da tre giorni però sono in costante trepidazione: alla pace delle ore di attesa, si contrappone una strana sensazione di forti emozioni in arrivo. E' una sensazione epidermica che mi porto appresso da quando sono atterrato col piccolo bimotore al calar del sole sulla trasandata pista in terra dell'Isola di Tanna. Il tempo era cupo e regnava uno strano silenzio, una pace quasi irreale. Ho quindi trovato un passaggio verso l’estremità opposta dell’isola. Uno sconquassato fuoristrada (qui sì che il termine fuoristrada è appropriato!) che procedeva a non più di dieci, quindici chilometri orari. Del tempo secco, che secondo le guide a queste latitudini dovrebbe regnare 360 giorni l'anno, nemmeno l'ombra. Vengo accolto da umidità e pioggia. Mi riparo a malapena con la mantellina da viaggio, che condivido giocoforza con tutti gli altri passeggeri ammassati su quell'unico veicolo. Alberi giganteschi, quasi spettrali, ci sovrastano e si confondono sempre più col colore scuro della terra. La pista nella foresta si fa vieppiù precaria, scivolosa, a tratti dobbiamo spingere la camionetta poi, improvvisamente l'orizzonte si apre.

Un mare di cenere ed il vulcano Yasur

Davanti a noi appare una visione quasi di altro mondo: un mare di cenere scurissima, un lago bordato di schiuma bianca e poco oltre un cono quasi perfetto: il vulcano Yasur. Attraversando la piana, a tratti, si odono delle esplosioni, un chiarore rossastro illumina il cielo, poi di nuovo il grande silenzio, rotto solo dal quel rumore di ferraglia della camionetta, che pare non avanzare mai. A notte inoltrata raggiungo una comunità locale. Poco lontano gli indigeni hanno costruito alcune capanne di bambù nelle quali ospitano i viaggiatori di passaggio. Alcuni giovani si fanno in quattro per rendere il mio arrivo il più dignitoso possibile: mi danno del cibo, una debolissima lampada a petrolio, dei fiori quale decorazione per la capanna. Poi mi trovo solo con ombre e suoni poco familiari. A pochi passi gli scogli a strapiombo sul mare scuro ed il rumore delle onde che vi si infrangono. Nella mente mi rimane impressa una frase letta sul libro degli ospiti: "il Paradiso è qui, l'inferno è lassù, qui è la spiegazione". Le persone incontrate in seguito, il tempo sempre piovoso, le luci lontane del vulcano, le strane pozze d'acqua bollente nelle quali vengono cotti i cibi e la solitudine, non hanno fatto in seguito che rinforzare la mia sensazione di essere capitato in un luogo particolare.
Girando intorno al vulcano ho raggiunto oggi il villaggio di Sulfur Bay, alla ricerca della verità sul "culto del cargo", sto però per vivere una ben diversa esperienza. Finalmente, quasi alla chetichella, all'improvviso gli indigeni escono dalle capanne abbigliati a festa con i visi colorati, piume d'uccelli e nastri variopinti nei capelli. Decorazioni in parte costituite da materiali artificiali, ghirlande e colori di pastello, che se non fosse per il fatto che sono l'unico straniero presente potrei dire fatte apposta per i turisti.

Il suono della conchiglia da inizio alla cerimonia

I segnali delle conchiglie si intensificano e risuonano dalla foresta vicina. Vi è grande movimento e trepidazione per l’arrivo del corteo di ragazzini, guidati dai loro maestri. Mi dicono che sono già stati consacrati adulti, anche se alcuni di loro non devono avere più di otto, nove anni. Il rito della circoncisione è avvenuto nei giorni precedenti, dopo che i ragazzi hanno vissuto in isolamento per quattro settimane. Poco prima dell’apparizione dei festeggiati ha luogo uno strano e crudele cerimoniale: la presentazione dei regali ammucchiati nelle ore precedenti. Il momento coincide con la fine della vita per i maiali e per la grande mucca, che da ore si domandavano come me cosa stesse succedendo. Un momento piuttosto macabro. I colpi delle pesanti mazze di legno sulle teste dei suini, che disperatamente gridavano guardando i loro boia con occhi quasi increduli, mi seguiranno ancora per giorni. Il sangue scorre pure per l'uccisione col machete della pacifica vacca e per il suo successivo squartamento sul posto. Un'ora dopo la carne mi viene servita ben cotta su di una foglia: malgrado il buon gusto il mio appetito è limitato. La festa intanto prosegue, iniziano danze di gruppo, curiose corse in cerchio ritmate con le mani e sempre più rapide, ma poi tutto pare affievolirsi inspiegabilmente. Mi invitano però a presenziare alla seconda parte della cerimonia prevista nella notte ...


8. Il vulcano esplode

La pioggia fortunatamente è cessata e per me questo significa che sarà forse possibile tentare l’avvicinamento al vulcano. Quel cono lassù, che pare essere a guardia di questa strana comunità di Sulfur Bay, non ha mai cessato di tuonare: esplosioni violente nel corso delle quali si vedono chiaramente fuoriuscire materiali eruttivi che poi ricadono sulle falde del monte. Una strana sensazione mi invade e con la mia guida mi incammino verso il vulcano. All'improvviso giunge addirittura il sole che fornisce un incredibile vigore al verde delle piante e delle poche zone d'erba che contrastano con quel nero della cenere, che parrebbe annullare ogni possibilità di vita. Nell'ultimo tratto di risalita del vulcano, accompagnato ora da un altro giovane del villaggio di nome William, la poca vegetazione sparisce completamente, solo cenere e sassi sotto i nostri piedi. Lava pietrificata e grandi massi, che raggiungono certamente tonnellate di peso, fuoriusciti dalla bocca del grande cono, sempre più vicina, rimbombante e temuta. William mi mostra alcuni massi che ieri non erano ancora sul terreno, a tratti si ferma, si sincera della direzione del vento, ascolta da dove provengono le esplosioni. La sua calma mi rassicura, mentre la sommità è sempre più vicina. A carponi facciamo gli ultimi metri, l'emozione è indescrivibile quando ci affacciamo sul ciglio del cratere per guardare in basso. Il vento soffia impetuoso alle nostre spalle, il rumore è assordante, soffi gassosi sibilanti, zampilli di lava come grandi fontane e poi esplosioni tremende e frammenti incandescenti lanciati per centinaia di metri verso il cielo: "qui è il paradiso, lassù l'inferno", come scrisse quel viaggiatore nel libro degli ospiti del villaggio, ora ne capisco pienamente il significato. Ma questo doveva essere solo la porta dell'inferno, in quel momento non sapevo ancora che il vero inferno l'avrei poi conosciuto più tardi nella notte. Tra un'andata ed un ritorno all'inferno, trovo effettivamente però pure, incredibilmente, il Paradiso. Al ritorno nel villaggio, dove assaporo il silenzio e la pace della mia capanna sugli scogli, mi si presenta infatti una visione che non avrei mai immaginato.

Col sole scopro il Paradiso

Il cielo è ora terso, le acque sottostanti tranquille e di un turchese risplendente. La laguna appare ora in tutta la sua incredibile bellezza. I pescatori sulle loro piroghe scivolano silenziosi tranquillamente sull’acqua. Dalle rive giungono i canti ed il vociare delle donne intente a lavare i panni nelle pozze di acqua calda. Intravedo delle testuggini nell'acqua e pure un dugong, uno strano e goffo mammifero imparentato con le balene che si nutre di alghe. Poi penso ancora al vulcano, mi hanno promesso infatti di ricondurmici nella notte. Il desiderio di riprovare le medesime emozioni del pomeriggio diviene come una droga. Sarà questa consapevolezza che mi farà partire subito il giorno seguente. Credo che non mi sarebbe più stato possibile rimanere in quel luogo senza continuamente risalire sul vulcano. Ed il gioco può diventare pericoloso.
La notte infatti le sensazioni sono completamente diverse, ci si sente isolati dal mondo, persi nell'oscurità, sorpresi ad intervalli dagli improvvisi bagliori. La sagoma di John, un amico del villaggio che mi accompagna nella seconda risalita, appare a tratti di un rosso vivo, poi si spegne nel buio e scompare, ma lo sento sempre vicino. E' come passare dal film in bianco e nero del pomeriggio a quello a colori della notte. Rimaniamo lì, affascinati davanti a quello spettacolo, a quelle esplosioni che le parole non possono descrivere. Ma poi all'improvviso un tremendo boato, zampilli altissimi di lava, un'esplosione terrificante, la terra trema ed il cielo sopra di noi si illumina di materiale incandescente. Pare che tutto debba caderci addosso. Rimianiamo impietriti, John mi tiene la mano, anche la sua è sudata. Guardiamo in alto sperando che nulla ci cada sulla testa. Trascorrono interminabili secondi, poi il silenzio, non ci diciamo niente, ci guardiamo e ci incamminiamo verso il basso, per tutto il tragitto che ci separa da Sulfur Bay, non apriremo più bocca.

Siamo tornati dall’inferno

Solo i canti che ci giungono dal villaggio ci riportano alla realtà: siamo tornati dall'inferno! La cerimonia iniziata il mattino, nel frattempo è in pieno appassionato svolgimento. L’ambiente è trepidante e caotico. Le danze sono sempre le stesse. Tutto inizia da un piccolo capannello di persone che cantano e battono le mani, a loro si aggiungono altri partecipanti, poi altri ancora, sempre di più, sino a quando una grande massa di gente sembra venir presa da una collettica allegra euforia. Si comincia a girare, prima con passi di danza ritmati, poi sempre più rapidamente fino a quando si è costretti di correre. Un tremendo vortice di persone, di grida, di luci e di fuochi ti prende e si ruota, si ruota fino a quasi a rimanere senza fiato, quasi ad esplodere. Poi la gran gioia, un momento di pausa e tutto riprende, e così per una notte intera. Sono ore inebrianti che sino all’indomani mi faranno dimenticare il vulcano e tutte le avventure che le Isole Vanuatu mi hanno riservato. Un ultimo sguardo a quella montagna scura, i boati delle esplosioni sono ormai lontani e la camionetta che mi riporta sull’altro lato dell’isola sta ormai per sormontare a fatica l’ultimo colle ed immergersi nella foresta. Le persone dei villaggi che attraversiamo mi fanno degli ampi cenni di saluto, come sapessero che la mia avventura sta per terminare. Dietro di me sfumano quei paesaggi, quei ricordi che per alcune settimane mi hanno avvolto, assorbito, appassionato, stupito, fatto anche paura e certamente insegnato molto ... ma forse è stato tutto solo un sogno. Fine.


Vanuatu (Nuove Ebridi)

Vanuatu in un dialetto locale significa "la terra che viene dal mare". Infatti è un arcipelago isolato, situato nel Pacifico del Sud a circa 2000 km dall’Australia, composto da 74 isole abitate e da altre 270 piccole lingue di terra emergenti. Prima del 1980, anno nel quale sono divenute indipendenti, erano note come Nuove Ebridi. Devono forse un poco della loro notorietà al rito dei saltatori dalle torri, ma offrono molte altre attrazioni quali vulcani, spiagge superbe e molta cultura e tradizione locale ancora intatta. Le strutture turistiche sono limitate e per viaggiare alle Vanuatu è indispensabile molto spirito d’adattamento.


L’autore: Roberto Schneider

Da oltre 20 anni viaggia nel suo tempo libero intorno al mondo. Ha così collezionato (a volte inconsuete) esperienze in tutti e cinque i Continenti ed in oltre 60 Paesi, spostandosi prevalentemente utilizzando mezzi di trasporto locali e spesso alloggiando presso gli abitanti dei luoghi visitati.


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